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martedì 2 gennaio 2024

Fermatevi

Fermatevi. L’abbagliante euforia, per l’incedere della neonata intelligenza artificiale nelle nostre vite, impone una riflessione sulla deriva di tale frontiera se non è governata. Ciò che potrebbe profilarsi all’orizzonte è terribile e, tuttavia, non sembra adeguatamente allarmare.

Ad emblema di tale sottovalutazione del problema, se non addirittura omissione di esso, si cita un articolo sintomatico del «Corriere della sera» del dicembre 2023 dal titolo Microsoft Copilot ora può creare canzoni (con testo e musica): un’agiografia del fenomeno di proliferazione di applicazioni e piattaforme fondate sull’intelligenza artificiale generativa che suppliscono completamente il processo creativo dell’artista. Ciò che maggiormente atterrisce e indigna è il tono di tale articolo - uno fra i tanti sul tema -, il quale le promuove acriticamente, senza alcun accenno agli stravolgimenti ed alle enormi questioni che esse sollevano. Chi si illude che l’intelligenza artificiale sia solo un supporto alle attività umane senza rimpiazzarle del tutto, si sbaglia. Nell’era della tecnica, nella quale siamo avviluppati, il primato dell’uomo era già compromesso ancor prima dell’avvento di tali tecnologie, le quali accelereranno un processo già in atto, anzi, ne sono l’estrema conseguenza. Non sfuggono l’utilità e le potenzialità di esse per alleviare o evolvere diverse attività umane, ma, accecati dai loro prodigi, si ignora la rotta intrapresa. La storia ci insegna che innovazione e progresso viaggiano su due binari separati, non sempre coincidenti: anche gli ordigni nucleari furono il prodotto di un’entusiasmante innovazione tecnologica. Dunque, non si obietta l’intelligenza artificiale in sé, ma la sua deflagrante applicazione, fideistica e indiscriminata, anche in ambiti delicati ed edificanti (edificanti in senso letterale) come l’arte.

lunedì 10 luglio 2023

Addio Colin


Capita, in un'afosa mattina di luglio, di ingarellarsi con un giornalista di un noto network automobilistico nei commenti a margine di un video di YouTube. Motivo del contendere la pubblicazione da parte della testata giornalistica del "primo contatto" della Lotus Eletre, "hyper SUV di oltre 5 metri, con un peso sulla tara di oltre 2 tonnellate, ma, soprattutto, a trazione elettrica", appena presentato. Ad indurmi a contestare il tono encomiastico del video - più correttamente, sarebbe giusto dire a costringermi - è stata la chiosa al pezzo del giornalista: "Alcuni ingegneri Lotus, mi hanno raccontato durante questo evento di Oslo, come il figlio di Colin, Clive, avesse scoperto negli anni passati bozzetti e tracce di una Lotus familiare esclusiva, insomma una progenitrice della Eletre".

Non ho saputo esimermi dal commentare quanto non sia degno di una testata giornalistica seria citare fantomatici bozzetti di Colin Chapman, riguardo una "familiare esclusiva", per giustificare l'oltraggio che la holding cinese Geely Holding Group (che ha acquistato il marchio nel 2017) sta facendo alla memoria di ciò che ha rappresentato il marchio Lotus nella storia dell'automobilismo. Si cerca forzatamente di tessere un filo con il passato Lotus, ma, in realtà, quel filo è stato maldestramente spezzato. Come me presuntuosamente credo la pensano in tanti, di certo i fortunati possessori di una Elise oppure di una Exige (per un brand ha ancora un valore il parere dei suoi storici clienti?). 

Casomai - ho suggerito -, nell'era dei SUV, un servizio automobilistico interessante sarebbe andare alla ricerca di quei bozzetti, per vedere come Chapman avesse declinato il suo emblematico "less is more" anche in quel caso. Ma, forse, questo è chiedere troppo, nell'era in cui anche il giornalismo è in "evoluzione". La coda velenosa al mio commento è stata che una cosa è raccontare il cambiamento in atto, un'altra è condividerlo; ammenoché, da parte delle testate giornalistiche del settore, non vi sia un tornaconto. 

venerdì 23 dicembre 2022

Matrimonio all'italiana

Il problema dell'Italia non è la destra, che ha divorato le menti e il cuore della maggioranza inerte del paese. La destra fa "la destra", attua meccanicamente ciò che ha in programma di fare (in modo militaresco), e ci riesce benissimo. Anche perché propagandare e mettere in pratica i disvalori di destra è molto più facile che seminare e fare fruttare i valori di sinistra: fare appello all'individualismo e alle insicurezze di una massa di individui è molto più semplice che far germogliare in essi il senso di comunità e la comprensione reciproci.

Il problema del nostro sventurato paese è, piuttosto, la sinistra, la sua colpevole sufficienza. Dalla morte di Berlinguer è iniziato il suo storico declino, come lo spegnersi di un faro della coscienza civile. Ma è dalla discesa in campo di Berlusconi del 1994 che la sinistra, invece di avere un sussulto, ha sventuratamente smarrito, e poi tradito, il senso della sua ragione d'essere: si è registrato un indietreggiamento graduale su tutti i fronti, una compromissione al ribasso che oggi è diventata corresponsabilità, complicità.

Un meccanismo perverso che Giorgio Gaber, nei suoi profetici monologhi, aveva ampiamente previsto: la dissoluzione in atto dell'individuo, dunque del popolo, quale pilastro della democrazia. Ciò che è più grottesco è che anche lui, scegliendo per moglie una donna forzista, avrà ceduto al compromesso, contrabbandando la parte più ideale di sé al demone affascinante della destra, sentenziando l'ineluttabilità e l'irreversibilità della degenerazione in corso.




sabato 5 marzo 2022

L'Europa ha un solo grande futuro, dietro di sé.

Stupiti, scopriamo in questi giorni che Putin è un pazzo sanguinario. Tutto giusto, quindi inutile ripetere ciò che è di dominio pubblico su di lui e la Russia. Ma, di quanto la NATO - cioè gli americani - sia corresponsabile di questa guerra annunciata, pochi, nelle testate occidentali, parlano, e quei pochi che lo fanno vengono additati di lesa maestà.    

Gli USA provocano consapevolmente e sistematicamente la Russia dalla fine della seconda guerra mondiale, polarizzando il quadro internazionale e schiacciando l'Europa in una morsa, avvantaggiandosene politicamente ed economicamente. A confermarlo ci sono le parole dell'attuale Presidente degli Stati Uniti che, riguardo all'incauto allargamento ad est della Nato, disse nel 1997: "Io penso in primo luogo che l'ammissione a breve termine nella NATO degli Stati Baltici provocherebbe delle conseguenze negative nei rapporti NATO e Russia, tra USA e Russia. Se mai esistesse una circostanza capace di far propendere verso una reazione vigorosa e ostile la Russia, sarebbe proprio questo".

Per queste ragione gli Stati europei dovrebbero, con un colpo d'ala, sciogliere la santa alleanza con gli americani, uscire dalla NATO e federarsi - finalmente - negli Stati Uniti Europei, dichiarandosi neutrali. Il Patto Atlantico è un abbraccio mortale che avvantaggia solo gli Stati Uniti d'America, ergendoli a guida dell'Occidente. Ma questa autorevolezza sugli altri Stati è infondata, questo status non glielo ha accordato nessuno.

Al contrario il popolo statunitense ha pochi primati di cui vantarsi. L'americano medio è gonfiato sin da piccolo da un nazionalismo becero ed è fieramente arrogante rispetto agli altri, ergendosi impettito su chiunque provenga da un altro paese che non sia il suo - e non si comprende su che basi: un paese relativamente giovane - dunque un nano della storia - la cui genesi racconta di uno sterminio degli indigeni propagandato per "conquista del west". L'imprinting è dunque quello di conquistare e depredare ammantandolo di eroismo. E, forse, l'arroganza USA è sintomo proprio di un inconscio complesso di inferiorità verso gli altri. 
Ed hanno ragione a sentirsi tali. Non hanno nulla da insegnare all'Europa, nessun primato da sventolare orgogliosamente, se non quello esibito con la bruta forza militare. Sono una costola della millenaria civiltà mediterranea, un surrogato ignorante venuto pure parecchio male. Avrebbero dunque bisogno di una gigantesca seduta psicoanalitica di massa. A fargliela - inascoltati - ci hanno pensato i loro grandi intellettuali, che, infatti, appartengono tutti alla controcultura. Sono i "non allineati" al mantra comune del sogno americano. In verità, il grande sogno americano è un bluff sul tavolo da gioco del mondo, un incubo. La tanto osannata democrazia americana è una farsa, il loro modello sociale lo è. Una società armata fino ai denti, strada per strada, pianerottolo per pianerottolo e divisa in caste: una manciata di Paperoni e una massa nevrotica di acquirenti compulsivi. Tutto è profitto, tutto fa business, finanche la salute (se non hai la possibilità di pagarti un'assicurazione sanitaria crepi). Nelle grandi metropoli americane, così come nelle loro sconfinate praterie, hai l'impressione che se chiudi i grandi megastore non sai dove andare. Il Dio denaro diffonde la sua legge amorale su ogni cosa e le pecore vanno dove vuole il cane. Cosa avremmo da imparare dal vuoto benessere che ci propagandano giornalmente? Per bombardare gli altri Stati non servono necessariamente i missili e le portaerei.
Inoltre, la comune solfa che dobbiamo essergli riconoscenti per averci liberati dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale ha stancato. Intanto, il nazifascismo che infestava tutta l'Europa tu sconfitto da un'alleanza eterogenea di paesi, tra cui anche la Russia (Auschwitz e Berlino furono liberate dall'Armata Rossa), quindi dovremmo essere riconoscenti e genufletterci a vita anche ai russi? Eppure, forse perché "bombardati" da decenni di film propagandistici hollywoodiani, dove c'è sempre qualche yankee che, all'ultimo respiro, salva il mondo dalla catastrofe, alla domanda su chi abbia sconfitto i tedeschi nel secondo conflitto mondiale, i più rispondono candidamente "gli americani", dimenticandosi, tra gli altri, degli inglesi e dei russi.
Comunque sia, essere riconoscenti non significa essere sudditi, le cambiali non durano in eterno. Dalla fine del secondo conflitto mondiale, invece, gli USA, con il pretesto di "difendere gli alleati e la libertà", hanno piantato la propria bandiera e le proprie truppe in tutta Europa. A che titolo? per difendere quali interessi, e di chi? L'Europa non ha bisogno degli USA per progredire e gestire la propria politica estera. Ha bisogno, piuttosto, di liberarsi dalla arbitraria polarizzazione dei blocchi USA-URSS che la stritola, emanciparsi e stabilire una terza via, la nostra.
Se anche la NATO non c'entrasse nulla con l'invasione dei russi dell'Ucraina, ma questa fosse solo il frutto dell'interventismo di un nevrotico assassino, sarebbe comunque un'irripetibile occasione per cambiare la Storia ed immaginare un futuro diverso per l'Europa e, dunque, per il mondo intero. Non sarebbe un voltare le spalle al popolo ucraino, ma il modo per salvare tutte le ucraine di oggi e di domani. Potremmo tornare ad essere il faro del mondo e non vivere di riflesso, come facciamo oramai da troppo tempo.
Che farebbero gli amici americani rispetto a ciò, ci bombarderebbero? ci sanzionerebbero? Allora tanto vale ammettere che la NATO è un ricatto, non una federazione paritetica tra Stati. Gli americani non potrebbero che prendere atto di una svolta del genere, allineandosi. Nello scacchiere internazionale hanno bisogno di noi almeno quanto noi di loro. Cambiare il paradigma non solo è possibile, è doveroso. Lo dobbiamo agli ucraini di oggi e a quei nostri patrioti che contribuirono più di ogni altro a liberarci dal nazifascismo e che scrissero in Costituzione "l'Italia ripudia la guerra".
Nel caso specifico, bisogna trattare direttamente con la Russia per il ritiro dall'Ucraina, intavolare accordi di pace lungimiranti che tengano conto dell'interesse comune ad avere proficue relazioni di vicinato, senza faziose ingerenze esterne. A causa della minaccia nucleare risulta comunque improbabile un coinvolgimento diretto statunitense sul campo - gli apparati americani sono abituati a giocare col fuoco, ma lontano dalle loro case. 
Ciò che interessa unicamente agli americani è rinnovare il proprio status di guida all'interno della NATO e a livello internazionale. In questo le tensioni che ciclicamente flagellano il nostro tempo li aiutano. Tensioni, quindi, il più delle volte create ad arte, come lo scientifico avanzamento ad est della NATO negli anni. Nel loro Risiko ideale, il mondo è diviso costantemente in due: i cattivi, i rozzi russi, e i buoni, loro, gli "illuminati", e noi a scodinzolare affinché il padrone ci porti a pisciare. L'Europa ha l'obbligo morale di fronte alla Storia di sabotare questo meccanismo perverso. Parafrasando una vecchia battuta sul matrimonio, la NATO è la capacità di risolvere in due i problemi che da soli non avremmo. L'Europa ha un solo grande futuro, dietro di sé. Si riappropri della sua Storia, del suo immenso patrimonio di civiltà sedimentato nei milleni, per guidare un nuovo umanesimo.
In coda, un grazie al giornalista Marc Innaro, corrispondente da Mosca della RAI, stranamente sparito dai palinsesti dopo aver semplicemente allargato l'orizzonte d'analisi della guerra in corso oltre le conclamate nefandezze di Putin, tirando in ballo anche le responsabilità della NATO. Altro doveroso ricordo al compianto Giulietto Chiesa che, come Cassandra, andava denunciando tutto questo in tempi non sospetti, quando Putin dormiva ancora nel letto del nostro Presidente del Consiglio in Costa Smeralda e la nostra destra ne tesseva le lodi di grande statista, ergendolo ad esempio per l'intera Europa.



venerdì 2 novembre 2018

Bob Kennedy odiava il Drive In


Il populismo e i nazionalismi crescenti non si giustificano con i depressi indici economici. Per capire la retorica e il linguaggio dei leader di oggi bisogna guardare il popolo che li vota - i leader sono catalizzatori, prodotti della società che li investe, e non viceversa. Allora guardiamolo questo popolo, guardiamolo il paese che genera questi mostri. Si capisce allora che la crisi non è di natura economica e finanziaria. 
La crisi ha radici antropologiche. Il dibattito attorno all'economia non è tra posizioni burocratiche alla Fornero o movimentiste alla Di Maio – Salvini, ma culturale, così come esposto da Bob Kennedy - ormai cinquanta anni fa - nel suo famoso discorso su cosa sia il PIL nei paesi occidentali contemporanei. La questione reale - e urgente - è la visione di cosa sia la crescita e cosa sia dunque auspicabile per il senso comune.
La profonda crisi economica e sociale in Europa è l'effetto di un arretramento culturale e, dunque, morale che attraversa i paesi che ne fanno parte, i quali hanno smarrito le radici umaniste che li ha progrediti nei secoli. Il progresso è inutile e deleterio se non è imbevuto di cultura. L’invenzione della stampa non è stata rivoluzionaria in sé, ma per il sapere e i contenuti che ha consentito democraticamente di diffondere: non ci sarebbe stata la Rivoluzione Francese senza Gutenberg. Così è oggi, con le nuove tecnologie e i nuovi mezzi di comunicazione di massa.

domenica 7 ottobre 2018

Le dune di Sabaudia e Salvini


I fascismi non nascono dal nulla, ma dalla degenerazione e dal fallimento del socialismo democratico. Sono sempre stati il rigurgito reazionario, scomposto e plebiscitario a profonde crisi economico-sociali. Una dinamica storica che si ripete ciclicamente: lotte sociali, benessere, lassismo, corruzione, crisi, fascismo, resistenza, lotte sociali… e così via.
Governare questa dinamica è la sfida - e il dovere - delle istituzioni democratiche da sempre. L’antidoto è scardinare la relazione perversa tra benessere e lassismo attraverso il filtro della cultura e l’istruzione di massa, promuovendo così un progressismo umanista che non demonizzi il profitto e, al contempo, non disumanizzi il lavoro (un benessere a misura d’uomo scevro da conflitti). La crisi identitaria delle sinistre moderne – storicamente impreparate a governare il benessere – nasce invece dall’essere rappresentate da una cultura e una istruzione elitarie e dirigiste, basate su una omologazione de facto e l’ipocrisia di avere il portafoglio gonfio e la coscienza comunque apposto.
L’unico deficit assorbibile e sostenibile potenzialmente all’infinito da una paese è quello a favore della cultura e l’istruzione pubblica. Il peccato originale dei governi progressisti passati è stato di non aver fatto profonde riforme al riguardo quando sono state al governo. La finanza si governa dalle scuole, non dalle borse. Tale equivoco genera il sospetto e rompe il legame con le masse, favorendo la corruzione nel corpo morto dello stato.
Pasolini, Cassandra dei nostri tempi, profetizzò in pieno boom economico quanto sta accadendo ai giorni nostri. Oggi ci tocca la resistenza civile, tra il nuovo che avanza e la deriva fascista che ritorna. Eppure basterebbe il partito del buon senso per governare il futuro.



martedì 25 aprile 2017

Il corto circuito all'italiana

Non è che l'Italia diventa sempre più un paese mediocre perché i suoi politici sono mediocri. I politici italiani sono mediocri perché l'Italia è diventata un paese mediocre. È quello che Nietzsche chiamava "trasvalutazione dei valori": cioè invertire la causa e l'effetto per comprendere ciò che accade. La classe politica non è altro che l'emanazione e lo specchio del paese. Un nuovo Rinascimento sarebbe possibile solo attuando politiche di crescita culturale e civica della popolazione. Ma qui sorge il corto circuito che infesta il presente e il futuro dell'Italia: perché quelle politiche dovrebbero essere emanate dall'alto, cioè da quella stessa classe politica che è la maggiore beneficiaria dello status quo. Come è evidente, le classi dirigenti non hanno alcun interesse a formare, e dunque ad emancipare, le classi meno agiate. Siamo in attesa, quindi, dell'unica vera rivoluzione possibile, quella dal basso; rivoluzione che, giustamente sottolineava Monicelli, non è mai avvenuta in Italia, perché l'italiano medio è corrotto e devoto del potere.

domenica 10 aprile 2016

Il petrolio d'Italia

"L'Italia è all'ultimo posto in Ue per percentuale di spesa pubblica destinata all'istruzione (7,9% nel 2014 a fronte del 10,2% medio Ue) e al penultimo posto (fa peggio solo la Grecia) per quella destinata alla cultura (1,4% a fronde del 2,1% medio Ue)." È quanto si legge in un articolo de «Il Sole 24 Ore» di fine marzo (il riferimento è a dati Eurostat del 2014). 
L'Italia al 32° posto per investimenti in Cultura in Europa è come se la Svizzera fosse al 32° posto per investimenti in orologi, la Germania al 32° posto per investimenti in wurstel e l'Olanda al 32° posto per investimenti in tulipani. Dopo il ventennio berlusconiano si pensava - e sperava - che qualcosa cambiasse, ma, al di là dei proclami, le percentuali di investimento statale in tal senso non si schiodano, se non di qualche decimale. Un grande "Piano nazionale per la Cultura e l'Ambiente" resta un'utopia anche a questo giro. E pensare che Renzi è stato sindaco di Firenze, dovrebbe saperlo che la fortuna del nostro paese è la sua cultura. Forse, proprio perché lo sa, non investe, così come fece il suo omologo a destra Berlusconi: la cultura è l'unica vera fonte di democrazia che esiste (tutti posso leggere Dante o ascoltare De André ed arricchirsi da tale esperienza), mentre la politica è piramidale, verticistica ed esclusiva. Rischiando di ripetersi, un popolo ignorante è un popolo disinformato, e un popolo disinformato è più facilmente influenzabile e "governabile". Comunque, machiavellico disegno o colpevole cecità, è desolante, in queste settimane, vedere il governo trafficare in petrolio e invitare esplicitamente i cittadini a non andare a votare al referendum del 17 aprile: il vero petrolio del mare della Basilicata non è di colore nero, ma è azzurro, ed è un petrolio inesauribile, che abbiamo solo noi. Tutelare e mettere a reddito la bellezza e la cultura d'Italia non è un esercizio di filantropia, ma un dovere della classe dirigente; il futuro del paese o il suo fallimento passa da qui, e non dalle rotte delle petroliere.

giovedì 28 maggio 2015

Il silenzio della Giovinezza

Poche ore fa ho visto Youth di Sorrentino. Ho deciso di scriverne qualcosa subito, perché ne vedo ancora il riflesso attorno a me, il suo riverbero ancora non è svanito del tutto. Quando finisce un film ed esci dal cinema, per qualche momento, sospeso, hai l'impressione di farne parte: il confine tra finzione è realtà è ancora magicamente confuso.
Ho sempre creduto che la Verità - se esiste - è un montagna: più si sale verso la vetta e minore è la terra sotto i piedi; l'aria diviene sempre più rarefatta, rendendo proibitiva la sopravvivenza, fino ad escludere del tutto la Vita così come la conosciamo. Per questo l'arte, nelle sue più "alte" espressioni, non ha grandi dialoghi o grandi partiture, ma grandi silenzi; come la Verità, al suo culmine, è un funambolico esercizio di equilibrio sul Niente.

lunedì 19 gennaio 2015

L'isola che non c'è

Alla fine di L’attimo fuggente Neil si uccide. Come Peter Davies, il bambino che ispirò la favola di Peter Pan a James Matthew Barrie, che si tolse la vita a 63 anni. Per questo credo che l’attore Robin Williams si sia tolto la vita anche lui a 63 anni. Soffriva di una malattia neurodegenerativa chiamata “Demenza da corpi di Lewy”, malattia che si manifesta soprattutto con frequenti allucinazioni visive. Robin Williams che aveva interpretato Peter Pan, aveva scoperto, da adulto, di essere davvero Peter Pan, come nel film Hook. Ma proprio come Peter Davies si è tolto la vita, perché “se ci credi davvero, fino in fondo, sei destinato a soccombere”. Bè io credo che, almeno questa volta, il Prof. Keating non abbia ragione. So bene che oggi dichiarare di avere un sogno equivale a bestemmiare. Chi ha un sogno porta con se un marchio d’infamia per i benpensanti, come un anarchico illuso, o, peggio ancora, come un inaffidabile immaturo. Ma chi ha un sogno, e vive per esso, muore una volta sola; quelli che ci hanno rinunciato, non l’hanno mai avuto, o lo hanno semplicemente dimenticato, muoiono due volte. La prima volta già in vita, quando ammazzano i propri sogni. Sembra che continuino a vivere, ma, se li osservi bene, sono dei moribondi, ed è così la maggior parte delle persone per strada. Salvo poi colmare il vuoto esistenziale che si crea con cose molto più futili, o, peggio ancora, introiettando sogni altrui, preconfezionati, innocui e appositamente progettati per la massa. Ma la questione importante è un'altra: oggi si confondono i sogni con le ambizioni, le passioni con le voglie, la realizzazione personale con il successo e la fama. Ecco dunque la frustrazione dei più. Una umanità indistinta, come una folla di artisti falliti. Perché sognava di diventare rockstar, e non di imparare a suonare e a cantare, di avere il nome più grande sul cartellone, e non di poter recitare; oppure di guadagnare e non di fare il lavoro che ci piace, di sposarsi e non di invecchiare accanto all’amore della propria vita, o di diventare genitore e non di mettere al mondo i bambini che eravamo. Abbiamo barattato il mezzo con il fine, e il fine con il mezzo; perché abbiamo dimenticato perché valeva la pena di lavorare ogni giorno, di innamorarsi, mettere al mondo i nostri figli; perché abbiamo dimenticato perché valeva la pena vivere.

Ci insegnano tante cose da piccoli per farci diventare "adulti", ma è soprattutto quando impariamo una cosa in particolare che possiamo dirci finalmente tali: quando impariamo a non credere più a niente, quando perdiamo quella meraviglia tipica dei bambini... come se questo fosse un segno di "maturità". Quante volte abbiamo sentito dire a un bambino “lui è diventato grande, non crede più a Babbo Natale”. Arriva per tutti il giorno della disillusione, quella che ti rende adulto agli occhi degli altri. In realtà hai soltanto ucciso il bambino che era in te, una parte di te, la parte migliore di ognuno di noi. È lo scalpo da consegnare alla rispettabilità sociale, alla convivenza e alla convenienza. Ma quando non si crede più a niente arriva il giorno che finisci a fare un lavoro qualsiasi per tutta la vita, a mettere al mondo figli che non volevi e con chi non abbiamo amato mai. Finché una mattina ti svegli, e ti accorgi di aver vissuto la vita di un altro, e ormai è troppo tardi. Come tutti quelli che fanno qualcosa per vivere, e non vivono per fare qualcosa.
È la crisi più grave che stiamo vivendo, e di cui nessuno parla: abbiamo smesso di sognare. O, peggio, abbiamo ormai vergogna a dichiararci sognatori. Si dirà “i sogni sono un lusso di chi se li può permettere”. Ma quanti gran signori sono solo dei poveracci, e quanta povera gente dei gran signori. Le cose più preziose che abbiamo, l’amore, la passione, l’immaginazione, non si comprano. Ma a furia di sentir parlare di finanza ed economia, ce lo stiamo dimenticando; come se la qualità di vita si misurasse con gli indici di borsa. “Un vincitore è solo un sognatore che non ha ma smesso di sognare” diceva Mandela. Non si tratta di arrivare primi. Non è il traguardo che conta, ma la strada. E questo viaggio che chiamiamo vita è più lieve seguendo la scia alta dei sogni invece di strisciare. Sognare è una prerogativa dell'uomo, non un capriccio puerile. Se ci siamo evoluti e progrediti nei secoli è perché qualcuno, da qualche parte, non aveva mai smesso di credere al proprio sogno. “Ogni volta che un bimbo dice: 'Io non credo alle fate', c'è una fatina che, da qualche parte, cade a terra morta”, diceva Peter Pan. Pensiamoci quando giochiamo distrattamente e svogliatamente con i nostri figli o con i nostri nipoti. I bambini quando giocano fanno la cosa più importante che c’è nella vita, sognano. Quello è il momento più importante e sacro che c'è. Se noi, invece di insegnare continuamente ai bambini a diventare adulti imparassimo dai bambini l’incanto per la vita che abbiamo dimenticato, il mondo sarebbe un posto bellissimo... l’isola che non c’è. 

Tutti nasciamo allo stesso modo, ma non moriamo tutti allo stesso modo.


Zum zum zum


    

"Zum zum zum" è l’indimenticabile sigla di Canzonissima del ’68 (qui cantata da Mina l’anno prima), quando la Rai ancora rappresentava l’eccellenza del paese e formava la coscienza civica degli italiani.  La storia che adesso i tempi sono cambiati e un certo tipo di televisione e di trasmissioni non sarebbero più possibili, non mi ha mai convinto; siamo noi a cambiare i tempi e non il contrario. Che la Rai negli ultimi anni abbia perso di autorevolezza e si sia livellata verso il basso, inseguendo l’audience della tv generalista e commerciale è un dato di fatto. Storiche maestranze e strutture svilite oggi in programmi mediocri, dove s’è perso del tutto il coraggio di produrre e presentare certi contenuti di qualità al grande pubblico. Non voglio impelagarmi in un discorso attorno alla crisi generale dell’editoria in Italia, ma gli editori per definizione sono dei facitori di cultura, e nel momento in cui abdicano a questa loro funzione, senza rendersene conto, in realtà segnano la loro stessa condanna a morte (non si capisce a che servono sennò, si facessero chiamare mercanti e basta). Non c’entra niente la crisi del mercato e della domanda, in realtà quello che si semina si raccoglie.