Il populismo e i nazionalismi crescenti non si giustificano
con i depressi indici economici. Per capire la retorica e il linguaggio dei leader di oggi bisogna guardare il
popolo che li vota - i leader sono catalizzatori, prodotti della società che li
investe, e non viceversa. Allora guardiamolo questo popolo, guardiamolo il
paese che genera questi mostri. Si capisce allora che la crisi non è di natura economica
e finanziaria.
La crisi ha radici antropologiche. Il dibattito attorno
all'economia non è tra posizioni burocratiche alla Fornero o movimentiste alla
Di Maio – Salvini, ma culturale, così come esposto da Bob Kennedy - ormai cinquanta anni fa - nel suo
famoso discorso su cosa sia il PIL nei paesi occidentali contemporanei. La questione
reale - e urgente - è la visione di cosa sia la crescita e cosa sia
dunque auspicabile per il senso comune.
La profonda crisi economica e sociale in Europa è l'effetto di un arretramento culturale e, dunque, morale che attraversa i paesi che ne fanno parte, i quali
hanno smarrito le radici umaniste che li ha progrediti nei secoli. Il progresso
è inutile e deleterio se non è imbevuto di cultura. L’invenzione della stampa
non è stata rivoluzionaria in sé, ma per il sapere e i contenuti che ha consentito
democraticamente di diffondere: non ci sarebbe stata la Rivoluzione Francese
senza Gutenberg. Così è oggi, con le nuove tecnologie e i nuovi mezzi di comunicazione
di massa.
Il futuro passa dalla moralità e dalla cultura delle masse,
dunque. In Italia tutto ciò è drammaticamente evidente: l'evasione fiscale
record e i risibili investimenti in istruzione, ricerca e cultura sono la prova
del nostro mostruoso deficit al riguardo, e la vera emergenza a cui una politica
seria dovrebbe mettere mano per invertire le sorti della future generazioni.
Il battesimo ufficiale del declino culturale italiano si può far coincidere con Drive In (trasmissione televisiva che ha fatto la fortuna del suo editore e inaugurato una triste parabola per il paese). Quello storico programma non ha generato alcunché, ma rappresentava
perfettamente la società di allora, benestante e scanzonata, di cui l'Italia di oggi è figlia. Una festa. E proprio
come alle feste tra amici si alza facilmente il gomito e si è tentati di trasgredire tirando
su qualche striscia non commendevole, così il paese ha iniziato a cedere all’epoca,
politicamente e finanziariamente, senza volerlo realmente. Per sciatteria più che per una reale colpa. Il debito pubblico
che oggi ci assilla nasce allora.
L'Italia, drogata dal benessere degli anni ottanta e novanta, non
si è accorta che stava scivolando a poco a poco in un liberismo vuoto e deleterio. Da allora abbiamo ceduto pezzi di democrazia e di conquiste secolari
di civiltà un poco alla volta, una puntata alla volta, distrattamente. La società isterica ed edonistica, compromessa con il mercato dell'apparenza, dove l'individuo si sente protagonista per qualche secondo
inquadrato da qualche telecamera (con risate finte in sottofondo) è iniziata lì,
in quella trasmissione. La più grande azienda culturale del paese, la RAI, si accodò, assorbendo acriticamente un linguaggio commerciale che ormai è imperante. La
televisione pubblica che aveva insegnato letteralmente all'Italia analfabeta del dopoguerra a
scrivere e a parlare, infondendole un senso comune di paese, l'ha poi smembrata, rendendola ignorante più di prima - se il privato poteva legittimamente
farlo inseguendo il proprio profitto, lo stato no.
Il colpo di grazia definitivo lo hanno dato i
social media - non basta più spegnere il televisore. Se tre generazioni fa ci si riconosceva almeno in un dialetto di elementari comunità rurali, oggi si fa riferimento a una virtuale, quanto sgrammaticata, social community mondiale, patria dell'individualismo occidentale, dell'Io frammentato contemporaneo. Una valanga di tweet, post,
link, dirette video dal nulla, che passa su tutto e tutti. Tutto ciò c’è e
basta, acriticamente. Il grande schermo riflettente di un Drive In si è moltiplicato all’infinito ed è finito nelle mani di
ognuno. Ma questa non è democrazia, ovvero "potere al popolo": è sciagura al popolo. Oggi una
persona su due in Italia è analfabeta “funzionale”: cioè legge, guarda,
ascolta, ma non capisce (fonte Ocse; l’Istat ha stime più pessimistiche, tre
persone su quattro). “La competenza minima per individuare una capacità di articolazione
del proprio ruolo di ‘cittadino’ - di soggetto consapevole del proprio ruolo
sociale, disponibile a usare questo ruolo nel pieno controllo della
interrelazione con ogni atto pubblico e privato – appartiene soltanto al 20 per
cento dei nostri connazionali [ndr. della popolazione occidentale]” (Z. Bauman). Da questa massa inerte il populismo trae e plasma il proprio elettorato facilmente. Si sperimentano nuove e perverse forme di "partecipazione diretta": il leader si rivolge direttamente a te dal tuo telefonino, e la gente vota e si candida da casa propria, da remoto, senza più alcun nesso e dialogo con il reale, con davanti solo lo schermo di un pc. È il nuovismo spericolato e smemorato.
Le scorie del liberismo sfrenato sono l'individualismo e la deresponsabilizzazione, cioè la perdita del senso di comunità e del senso del dovere,
riconoscendo solo i diritti del singolo. Uno stato sovranazionale di individui eterodiretti dal grande fratello globale, che, non a caso, è anch'esso un programma televisivo di successo. Orfani di un senso civico e comune di progresso, le lobby del capitale e i populisti ringraziano.
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