Fermatevi. L’abbagliante euforia, per l’incedere della
neonata intelligenza artificiale nelle nostre vite, impone una riflessione sulla
deriva di tale frontiera se non è governata. Ciò che potrebbe profilarsi
all’orizzonte è terribile e, tuttavia, non sembra adeguatamente allarmare.
Ad emblema di tale sottovalutazione del problema, se non addirittura
omissione di esso, si cita un articolo sintomatico del «Corriere
della sera» del dicembre 2023 dal titolo Microsoft Copilot ora può creare canzoni
(con testo e musica): un’agiografia del fenomeno di proliferazione di
applicazioni e piattaforme fondate sull’intelligenza artificiale generativa che
suppliscono completamente il processo creativo dell’artista. Ciò che
maggiormente atterrisce e indigna è il tono di tale articolo - uno fra i tanti
sul tema -, il quale le promuove acriticamente, senza alcun accenno agli
stravolgimenti ed alle enormi questioni che esse sollevano. Chi si illude che l’intelligenza
artificiale sia solo un supporto alle attività umane senza rimpiazzarle del
tutto, si sbaglia. Nell’era della tecnica, nella quale siamo avviluppati, il
primato dell’uomo era già compromesso ancor prima dell’avvento di tali
tecnologie, le quali accelereranno un processo già in atto, anzi, ne sono
l’estrema conseguenza. Non sfuggono l’utilità e le potenzialità di esse per
alleviare o evolvere diverse attività umane, ma, accecati dai loro prodigi, si
ignora la rotta intrapresa. La storia ci insegna che innovazione e progresso viaggiano su
due binari separati, non sempre coincidenti: anche
gli ordigni nucleari furono il prodotto di un’entusiasmante innovazione
tecnologica. Dunque, non si obietta l’intelligenza artificiale in sé, ma la sua
deflagrante applicazione, fideistica e indiscriminata, anche in ambiti delicati
ed edificanti (edificanti in senso letterale) come l’arte.
In tal caso, è in discussione il primato dell'uomo su quanto
ha di più caro, ovvero sé stesso. Fare arte attraverso dei prompt può sembrare un
gioco innocente adatto a tutti, ma è tremendamente banale come premere un bottone
rosso prima dell’olocausto. Alla disumanizzazione dei processi e delle
dinamiche umane già in atto, consegneremmo anche l’ultimo baluardo del nostro essere umani, prima della definitiva capitolazione,
ovvero l’arte, il tempio che custodisce quanto abbiamo di più sacro e ci
contraddistingue come specie vivente: la nostra capacità di comunicare, di compenetrarci
in noi stessi, nel mondo e in ciò che è fuori da esso. Se l’uomo di Lascaux si elevò
dal rango di animale fu per l’invenzione dell’arte; ed allo stato animale
regrediremmo se violassimo quel tempio.
Un’arte mediata dall’intelligenza artificiale non è arte, ma artifizio. Come un’estrema opera
dadaista, paradossalmente, esso si impone come paradigma dell’epoca della
tecnica proprio per il suo cortocircuito di senso. Ma è un artifizio che racconta
di uomo non più demiurgo, ma semplice funzionario dell’apparato, e non più essenziale
al suo funzionamento. Anche a voler cedere alla provocazione, oggi indichiamo ad
un calcolatore un prompt da eseguire, a breve non servirà nemmeno quello e,
oltre al gesto artistico, sarà superflua anche l’intenzione che lo precede. L’arte,
invece, è una promessa di vita che esorcizza la morte, frutto della vita, e,
dunque, una maieutica che necessita della gestazione e del travaglio di un
grembo. È, al tempo stesso, emanazione e celebrazione della vita, mentre un’arte
così de-generata non racconta più la vita, ma la sua negazione. È un’arte che
ha reciso il cordone ombelicale con l’uomo ed è, tuttalpiù, una sua figlia
illegittima.
Tale artificio contraddice dunque l’assioma dell’arte quale
manufatto dell’uomo e si configura come un ossimoro che nulla aggiunge alla
storia dell’arte, oltre al suo inglorioso Armageddon. A tali elucubrazioni,
indifferenti al senso comune, si somma il dramma reale di taluni artisti o
creativi in genere, gli unici che stanno soffrendo questo trapasso con
consapevolezza e di cui non c’è testimonianza alcuna. Soprattutto si registra
un silenzio connivente da parte di chi potrebbe e dovrebbe intervenire a tutela
del sacro fuoco dell’arte: legislatori, associazioni di categoria, addetti ai
lavori, artisti rinomati, editori. Non si odono barricate, evidentemente perché
l’intelligenza artificiale fa comodo a tanti. Ma l’arte non nasce dalla
comodità, ma dal disagio: “L’opera d’arte è come la perla, ma si dimentica che
la perla è la malattia dei molluschi” (U. Galimberti). L’utilità
dell’intelligenza artificiale finirà per atrofizzare l’arte, fino a
paralizzarla uccidendola. Evidentemente, come per la massa delle persone, anche
per costoro l'arte è solo un orpello, una mera fonte lucrativa priva di alcuna
sacralità. Ma, per chi ha dedicato al suo magistero la propria esistenza, ciò
che sta avvenendo, nell'esaltazione generale, è atroce, una minaccia alla
stessa ragione di vita. Ad un artista non importa la potenziale invasione di
opere generate dall'AI, quanto tutelare le sue dal sospetto che non siano il
frutto del suo talento e della sua ispirazione. Se tale promiscuità può non
contrariare il pubblico, essa risulta invece devastante per un artista, un'infamia
che lo atterrisce e annienta. Il tema dell'attribuzione dell'opera è centrale nella
storia dell'arte. Rinnegandolo ne risulterebbe una storia sterile, svuotata
dell’epica che la sostanzia. Se da essa eliminassimo i suoi protagonisti, si
perderebbe il senso letterale di storia, in quanto, come si diceva prima, ogni
opera è legata visceralmente al suo artefice.
Cosa sarebbe stato della grande arte del passato se su di essa fosse aleggiato
il sospetto di non essere impresa esclusiva dei suoi celebrati autori? Cosa
avrebbero rappresentato oggi L'arte della fuga, l’Estasi di Santa Teresa, Guernica? E cosa ne sarà del prodigio
artistico in futuro, della Bellezza quale patrimonio dell'umanità?
Non si tratta di opporsi al cambiamento insito nel cammino dell’uomo, ma di
preservare la ragione del viaggio. Il sacro magistero dell'Arte non può essere
delegato ad un'intelligenza artificiale. Il prodotto dei suoi artifizi può
certamente commuovere, ma è proprio questo il dramma: gli uomini non avranno
più bisogno gli uni degli altri, finché tutto ci diverrà estraneo, persino noi
stessi; assuefacendoci ai surrogati, diverremo dei surrogati noi stessi. Non è
dunque in gioco il destino di un ultimo manipolo di romantici, ma ciò che
definisce e informa l'Uomo e la sua umanità.
Chi può intervenga. Si potrebbero escogitare sistemi di
tutela del diritto d’autore come la filigrana consente in controluce di
verificare l'autenticità di una banconota, ma si disciplini questa materia. Non
si speculi e non si faccia profitto su tutto.
Chi scrive non si illude che da questa sanguinosa preghiera
sortisca alcun effetto. Essa serve solo a lenire il personale senso di
impotenza e a tributare un’ultima e disperata resistenza all’arte, alla quale
si è immolata l’intera vita.
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