l'Eco

Antologia d'altri
---

Un paese che non fa in conti con la propria storia è un paese con un futuro mutilato.


---

«Nichilismo: non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest'ospite e guardarlo bene in faccia.» (M. Heidegger)


---

Per me è un no!
«Non voglio crogiolarmi nell’autocommiserazione, è così. Io non ho niente da dare». È uno dei temi ricorrenti nelle lettere che ricevo dai ragazzi, ma ho scelto queste parole di una ventenne perché, in un solo doloroso giro di frase, c’è il nesso tra l’avere un talento e la possibilità di donare qualcosa. Ma la parola «talento», nella cultura della prestazione e del successo, si è profondamente trasformata. «Talento» va ormai a braccetto con show: qualcosa, anche se acerbo, da dare in pasto al pubblico. Così non si ha un talento, si è un talento: l’identità dura il tempo della ribalta. I «talent», che abbracciano tutte le età e ambiti utili all’audience, hanno riportato in auge il talento come dono da riconoscere e valorizzare. Il format infatti ha la struttura di una scuola, ma si tratta di una costruzione narrativa che riduce il talento a competizione nella quale chi non va avanti — «per me è un no!» è diventato proverbiale — deve affrontare ciò che, nella vita ordinaria, è un fallimento. Il contesto provoca quindi un cortocircuito: non ho successo, non valgo, non ho talento. Uno dei motivi dell’insoddisfazione cronica di oggi è frutto dell’immaginario della felicità come successo. Ma la vita non ha valore per la prestazione, bensì per la presenza: nulla e nessuno appare invano. I Greci definivano la verità aletheia: ciò che non rimane nascosto e deve venire alla luce. Il successo però si concentra sulle luci (della ribalta), non su ciò che viene alla luce. I talent di fatto forzano il tempo necessario per lavorare sul proprio dono: infatti il talento si coltiva, il successo si produce. Ed è per questo che molti «successi», spesso esplosi con i talent, con il tempo (a volte bastano pochi mesi) tornano a un amaro silenzio, perché non nati da ciò che merita di venire alla luce, ma su un consenso abbagliato e abbagliante. Aveva talento da vendere o per vendere?
Originariamente però la parola talento indicava la bilancia e per estensione un’unità di misura di peso/valore dell’oro. E perché allora la usiamo tutti i giorni? È diventata proverbiale grazie alla parabola di Cristo raccolta da Matteo nel suo Vangelo. Una delle cose che più mi colpisce della nostra cultura, nata dall’incrocio di Atene e Gerusalemme, è l’ignoranza dei Vangeli, eppure basterebbero sei ore a leggerli. Diceva Borges, nelle sue lezioni americane, che, credenti o no (lui non lo era), le tre storie meglio raccontate al mondo sono Iliade, Odissea e Vangelo, e proprio in quest’ultimo trovava la perfezione del racconto epico. Sì, Borges dice «poema epico», perché è il genere in cui l’uomo si confronta con il destino. Nei Vangeli si trova un’arte di vivere che non ha nulla a che vedere con lo smorto sentimentalismo e citazionismo a cui sono spesso ridotti. Una delle cause è nella lettura che ne diede Nietzsche ravvisando nel cristianesimo proprio il contrario dell’epos: le dimissioni dalla vita terrena a favore di quella ultraterrena. Eppure chi legge davvero il Vangelo non trova un invito a ritirarsi dalla vita, ma una sfida: a differenza degli «straordinari» eroi omerici, trova l’epica dell’uomo «ordinario», perché eroica è ogni vita, perché anche la più nascosta deve venire alla luce. Lo mostra proprio la parabola «dei talenti». Parabola (da «lanciare attorno» e da cui il nostro «parola») è un racconto che prova a definire qualcosa di così denso che si può farlo solo con il linguaggio metaforico, e in questo caso il tema scottante è il giudizio divino. Comincia così: «Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni». Il creato è affidato all’uomo: non è proprietario, ma custode, non è padrone, ma al servizio. Il padrone parte, la fiducia nell’uomo è totale: una certa «assenza» di Dio è buona, garantisce la nostra libertà. Tornerà, ma nel frattempo la sua presenza è nei beni. L’epica comincia a emergere: la vita dell’uomo è responsabilità (rispondere all’inatteso) e protagonismo (combattere in prima linea). Il racconto infatti continua così: «A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì». Il passo è decisivo: i talenti non coincidono con le capacità, ma sono dei beni affidati in base ad esse. Le capacità sono il frutto del grande gioco di libertà umana e necessità del cosmo (scelte, genetica, ambiente), e la base di ogni benedetta differenza. «Ha le capacità ma non si applica» è il ritornello che ha descritto migliaia di alunni. Ma quali capacità? A questo deve saper rispondere l’educatore: se non lo ha chiaro non può educare a coltivare i talenti. Nella parabola il padrone li affida in base alle capacità, a ciascuno viene dato il massimo. La capacità di un boccale di birra è diversa da quella di un bicchiere da liquore, ma se vengono colmati sono pieni entrambi. I talenti sono quindi «tutta la vita» che possiamo ricevere in base alla nostra «capacità». Ai tempi di Cristo un talento era una cifra esorbitante: 35 chili d’oro (oggi 1,2 milioni di euro). Questo significa che a ciascuno viene affidato qualcosa di grandioso, né al di sopra né al di sotto delle proprie possibilità e nel rispetto delle differenze: un dono inatteso che chiama all’avventura. Così i talenti rendono alcuni servi gli eroi della storia: «Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che ne aveva ricevuto uno solo, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone». O ci si impegna da protagonisti per ampliare la vita che ci tocca o la si sotterra. Sappiamo come finisce: il padrone torna «dopo molto tempo» (la durata della vita) e premia chi ha moltiplicato: «Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Chi ha saputo ampliare una piccola parte del patrimonio della vita lo riceve tutto intero: diventa padrone. Invece l’antieroe si giustifica: «Per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo». Ha sprecato la vita per paura, le sue capacità sono rimaste inattive, e resta un servo: «Servo malvagio e pigro, avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così l’avrei ritirato con gli interessi. Toglietegli il talento, e il fannullone gettatelo fuori nelle tenebre». Il pigro non prende posizione, sotterra la vita, che gli viene tolta perché non l’ha mai vissuta: «Questi sciagurati che mai non fur vivi», così Dante chiama gli ignavi, coloro che, indifferenti a tutto, sono morti in vita.
Il talento è allora la vita stessa nel suo darsi: l’uomo è vivo se rimane aperto, riceve tutta la vita che può e la moltiplica. Come? Attraverso la creatività, dote di tutti gli artisti del quotidiano: siamo fatti per creare con la materia che riceviamo. Tanto che possiamo adattare a ciascuno le parole di Dostoevskij sul poeta: «Non è lui il vero creatore, bensì la vita, la possente sostanza della vita, l’autentico Dio vivente, che concentra la forza e la varietà della sua potenza creativa, perlopiù in un cuore generoso, cosicché se si può dire che non e il poeta stesso l’autentico creatore tuttavia la sua anima è indubbiamente la miniera che crea il diamante». Creare ha infatti la stessa radice di crescere: crea chi fa crescere la vita, cioè chi ama. I talenti di un docente sono le vite degli alunni: da ricevere e moltiplicare, non sotterrare. I talenti di un padre sono i figli, il talento di un marito è la moglie. Il talento di un artista è un dolore da trasformare in bellezza. Insomma il talento è tutto ciò che riceviamo ogni giorno, sta a noi decidere se diventare protagonisti (accettare e moltiplicare) o indifferenti (sotterrare). Inoltre i talenti, mentre proviamo ad accrescerli, fanno crescere le nostre capacità: se accresci, cresci. Continua infatti Dostoevskij: «Dopo si ha la seconda fase dell’intervento del poeta, dopo aver trovato il diamante, lo rifinisce alla perfezione (qui la sua parte è quasi solo quella di un gioielliere)». Più mi impegno per le vite degli alunni (tanti talenti quanti nomi) più le mie capacità educative crescono, divento l’eroe di un poema quotidiano: servire la vita senza essere servo, anzi uscendo dalla condizione servile proprio grazie al patrimonio che mi viene affidato. Ed è una gioia!
Il letto da rifare oggi è restituire al talento il significato ricettivo, ridimensionando quello prestazionale alimentato dall’io frammentato che si aggrappa a ciò che sembra dargli consistenza. Mente chi dice di non avere talenti: è un talento il lunedì, un amico, un film, persino un dolore o una crisi, perché tutto è vitale. Vivere non è ingabbiare la vita in schemi e pretese, ma scegliere che posizione prendere rispetto a ciò che ci viene incontro: ricevere e moltiplicare, rischiando, o sotterrare per paura o comodità. «Adesso so che posizione prendere», così scriveva nel suo Diario Etty Hillesum, ebrea, innamorata del Vangelo di Matteo, morta in campo di concentramento, e si chiedeva: «Sono già abbastanza avanti da dire: spero di andare al campo per essere di appoggio alle ragazze di sedici anni che ci vanno? Per rassicurare i genitori: non siate inquieti, io vigilerò sui vostri figli. In fondo il nostro unico dovere è dissodare in noi stessi vaste aree di pace, per irraggiarle sugli altri. E più pace c’è nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato». Cara ragazza della lettera, c’è sempre qualcosa di cui essere ricchi e da dare: il segreto è rimanere aperti per riceverlo, ogni giorno, e prender posizione per moltiplicarlo, costi quel che costi. Solo così, nel poema di ogni vita, tutto diventa vero, tutto viene alla luce.
(di Alessandro D'Avenia, da "Letti da Rifare" Corriere della Sera, 5/11/2018)

---

Gente incapace di omologarsi - In un mondo malato, i sani di mente vanno dallo psicologo
Come psicoterapeuta, incontro spesso persone dotate di un’ottima salute mentale ma sofferenti, a causa della patologia sociale in cui vivono immerse. Nel corso degli anni ho individuato, dietro a tante richieste di aiuto, una struttura di personalità dotata di sensibilità, creatività, empatia e intuizione, che ho chiamato: Personalità Creativa. In questi casi non si può parlare di cura (anche se, chi chiede una terapia, si sente patologico e domanda di essere curato) perché: essere emotivamente sani in un mondo malato genera, inevitabilmente, un grande dolore e porta a sentirsi diversi ed emarginati. Le persone che possiedono una Personalità Creativa sono capaci di amare, di sognare, di sperimentare, di giocare, di cambiare, di raggiungere i propri obiettivi e di formularne di nuovi.
Sono uomini e donne emotivamente sani, inscindibilmente connessi alla propria anima e in contatto con la sua verità. Queste persone coltivano la certezza che la vita abbia un significato diverso per ciascuno e rispettano ogni essere vivente, sperimentando così una grande ricchezza di possibilità.
É gente che non ama la competizione, la sopraffazione e lo sfruttamento, perché scorge un pezzetto di sé in ogni cosa che esiste. Gente che non riesce a sentirsi bene in mezzo alla sofferenza e incapace di costruire la propria fortuna sulla disgrazia di altri. Gente che nella nostra società non va di moda, disposta a rinunciare per condividere. Gente impopolare. Derisa dalla legge del più forte. Beffata dalla competizione.
Portatori di un sapere che non piace,  non perdono di vista l’importanza di ciò che non ha forma e non si può toccare. Sono queste le persone che possiedono una Personalità Creativa. Persone ingiustamente ridicolizzate e incomprese in un mondo malato di arroganza, e che, spesso, si rivolgono agli psicologi chiedendo aiuto. Ognuno di loro è orientato verso scelte diverse da quelle di sempre. E in genere hanno valori e priorità incomprensibili per la maggioranza. Non seguono una religione, ma ascoltano con religiosa attenzione i dettami del proprio mondo interiore. Sanno scherzare, senza prendere in giro. Pagano di persona il prezzo delle proprie scelte e preferiscono perdere, pur di non barattare la dignità.
Sono fatti così. Poco ipnotizzabili. Poco omologabili. Poco assoggettabili. Persone che non fanno tendenza. Forse. Gente poco normale, di questi tempi. Gente con l’anima.
(di Dr.ssa Carla Sale Musio, da www.carlasalemusio.it, 19/11/2015)

---

Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido (A. Einstein). 

La sicurezza del paese si fonda sull'insicurezza dei cittadini (L. Sciascia)

Ci sono due ausiliari: il verbo essere e il verbo avere. Chi vuole avere non è, chi vuole essere rinuncia all'avere. Questo è tutto (A. Gatto). 

Non dobbiamo fare i film che si vendono, ma vendere i film che facciamo (F. Cristaldi).

Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare la legna, non dividere i compiti e non impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito (A. de Saint-Exupéry).

Educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco (W. B. Yeats).

Quanto più ci innalziamo, tanto più piccoli sembriamo a quelli che non possono volare (F. W. Nietzsche).

Quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non sentivano la musica (attribuzione F. W. Nietzsche). 

La musica è crepuscolo tra le tenebre della materia e la luce dello spirito (H. Heine).


Si faccia quello che si deve, accada quello che puo' (P. Nenni).

La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza (P. Pasolini).


Un vincitore è solo un sognatore che non si è mai arreso (N. Mandela).


Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza, in profondità, succhiando tutto il midollo della vita, [...] per sbaragliare tutto ciò che non era vita e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto (H.D. Thoureau).


La felicità non è una meta. È uno stile di vita (B. Hills).


Se un uomo non è disponibile a correre qualche rischio per le proprie idee, o le sue idee non valgono nulla o è lui che non vale nulla (E. Pound).

Se la fatica giornaliera non ti restituisce piacere per ciò che fai, stai inseguendo l'ambizione non la passione (A. Zanardi).


Il successo è ottenere ciò che si vuole. La felicità è volere ciò che si ottiene (I. Bergman).

Quando il potere dell'amore supererà l'amore per il potere avremo la pace (J. Hendrix)

Nessun commento: